http://circolocabana.sitiwebs.com/


Non si può morire così...
Stefano Frapporti era un muratore di 48 anni. Il 21 luglio 2009 andava in giro in bicicletta quando è stato fermato da due carabinieri in borghese per un'infrazione stradale. Portato in carcere perché sospettato di spaccio non uscirà mai vivo dalla cella.

Questo blog nasce dalla volontà della famiglia di ottenere chiarezza su quel che è successo a Stefano e per chiedere che venga fatta giustizia.



ASSEMBLEA PUBBLICA TUTTI I MARTEDI' DALLE 20.00 ALLA SEDE DELL'ASSOCIAZIONE "STEFANO FRAPPORTI" IN VIA CAMPAGNOLE 22.

lunedì 23 novembre 2009

Spotlights - trasmissione radiofonica di Radio Kairos - su carcere e giustizia

"C'è un virus che striscia tra le forze dell'ordine di questo paese e le forze politiche in alcuni casi lo legittimano". A parlare l'autore del libro Acab, Carlo Bonini.

Il giornalista e scrittore è uno degli ospiti con cui questa settimana commentiamo la situazione nelle carceri e le violenze delle forze dell'ordine a partire dalla vicenda di Stefano Cucchi. In Italia ci sono una serie di episodi legati all'abuso di potere da parte della divisa. Tra iconografie del nemico, pestaggi, omicidi impuniti o quasi, fuori e dentro il carcere, proviamo a fare un'analisi di quello che sta succedendo da anni in Italia, dove troppo spesso le forze dell'ordine si sentono legittimate ad usare la violenza e molti giovanissimi finiscono per morire di morte violenta per strada o nelle strutture carcerarie, che vivono in questo periodo lo stato di maggior degrado degli ultimi 50 anni.

Ne abbiamo parlato con:
  • Carlo Bonini - Giornalista di Repubblica, autore del libro Acab
  • Fabio Anselmo - Avvocato della famiglia Cucchi e Aldrovandi
  • Marco Rigamo - Trasmissione "Liberi Tutti" - dedicata alle problematiche della detenzione - Radio Sherwood, Padova
  • Desi Bruno - Avvocato garante dei diritti dei detenuti, Bologna
  • Elia de Caro - Avvocato, osservatore sulle condizioni di detenzione nelle carceri per l'associazione Antigone
  • Francesco Morelli – Curatore del dossier “Morire di carcere” del centro studi "Ristretti Orizzonti"

domenica 22 novembre 2009

In cento alla fiaccolata in ricordo di Frapporti

Un centinaio di persone, amici, parenti e conoscenti di Stefano Frapporti, hanno sfilato ieri sera in centro storico per una fiaccolata in ricordo del muratore di 49 anni morto suicida in carcere poche ore dopo l’arresto. Ieri ricorreva il quarto mese dalla tragica scomparsa di Frapporti, “Cabana”, come lo chiamavano da sempre gli amici, era stato arrestato dai carabinieri dopo un controverso inseguimento in via Campagnole. Secondo gli amici di Frapporti, la versione dei carabinieri non sarebbe credibile perchè in palese contraddizione con quanto visto da almeno tre testimoni oculari dell’arresto. Sul caso, la magistratura roveretana è orientata a archiviare tutto non ravvisando comportamenti irregolari da parte delle forze dell’ordine nè delle guardie penitenziarie che avevano appena preso in consegna Frapporti. Al di là dei giudizi di merito, è indubbio che Frapporti, incensurato prima dell’arresto, amato e apprezzato sul lavoro per la sua abilità e onestà, fosse una persona con rapporti di amicizia forti in città. Nessuno lo crede un poco di buono, anche se lo scorso 21 luglio i carabinieri gli hanno trovato in casa un etto di hashish, arrestandolo per detenzione di sostanze stupefacenti. Molti sono anzi convinti che sentirsi trattato come un criminale l’abbia portato a togliersi la vita. L’affollata manifestazione di ieri, svoltasi senza tensioni, testimonia l’ansia di verità di parenti e amici, che hanno deciso di costituirsi in associazione.

Il Trentino, 22/11/2009

I media si sono accorti che esiste la violenza istituzionale

Finalmente i media si sono accorti che esiste la violenza istituzionale, che si può morire di botte in prigione, che la tortura non riguarda il terzo mondo. Le forze politiche ancora balbettano. Un modo elegante per uscire dal silenzio sarebbe l’approvazione di una piccola legge, quella che introduce il crimine di tortura nel codice penale. L’Italia nel lontano 1987 ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ma oggi rispetto a essa è ancora inadempiente. Nei seguenti paesi europei la tortura è un delitto specifico: Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Islanda, Lettonia, Lussemburgo, Macedonia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Slovenia, Slovacchia, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Ungheria. In Italia la tortura invece non è reato. Vi sono vari disegni di legge pendenti. I senatori radicali Poretti e Perduca tentarono un coraggioso colpo di mano mentre si discuteva il pacchetto sicurezza. L’emendamento che avrebbe introdotto il crimine di tortura fu bocciato per soli cinque voti. Non sappiamo chi allora votò contro perché il voto era segreto. La proposta di legge sulla tortura va approvata senza farsi condizionare dai sindacati di polizia e dalle forze dell’ordine. Di fronte agli episodi gravissimi di questi ultimi giorni appaiono non comprensibili tanto meno condivisibili le giustificazioni, le difese di corpo, le rimostranze sindacali sul numero scarso di poliziotti al lavoro nelle carceri. Non regge l’assioma secondo cui poiché i poliziotti sono pochi, di conseguenza sono stressati e quindi…. Riteniamo che la questione non sia quella di aumentare l’organico di polizia bensì di razionalizzarne la dislocazione. Nell’Europa dei 27 l’Italia ha raggiunto il ragguardevole risultato di essere tra i paesi con il numero più alto di poliziotti penitenziari in termini assoluti e relativi. Se si considera l’attuale numero di detenuti – 65 mila circa – in Italia abbiamo un poliziotto penitenziario ogni 1,54 detenuti. La media europea è di 2,94. Sono 42.268 i poliziotti penitenziari in organico. 39.482 sono i poliziotti che lavorano effettivamente per l’amministrazione penitenziaria al netto di distacchi e assenze di vario tipo. Tra le situazioni regionali di maggiore disagio vanno segnalate quelle del Piemonte, Veneto, Emilia Romagna e Sardegna. Posto che circa 1500/1800 agenti svolgono compiti anche di natura contabile, che circa 700 agenti lavorano negli spacci, che circa 4/5000 uomini sono giornalmente impegnati nei servizi di traduzione e piantonamento dei detenuti fuori dalle strutture penitenziarie, che circa 500 agenti lavorano al Ministero della Giustizia, che circa 1600 agenti lavorano al Dap, che varie migliaia sono impegnate nei Provveditorati regionali, nelle Scuole di formazione, agli U.E.P.E., al GOM – Gruppo Operativo Mobile-, al N.I.C. - Nucleo Centrale Investigazioni, all’U.S.P.E.V. Ufficio per la Sicurezza del Personale e della Vigilanza, al Servizio Centrale delle Traduzioni e Piantonamenti, con annessa la sezione relativa al Servizio Polizia Stradale, fuori dall’Amministrazione penitenziaria (Corte dei Conti, Presidenza Consiglio dei Ministri, C.S.M., ministeri diversi) ne restano a spanne 16 mila che si sobbarcano il lavoro atto a garantire la sicurezza complessiva nelle carceri. Per un sud che non ha carenze di organico – anzi - vi è un nord dove la situazione è drammatica (a Padova nuovo complesso mancano 78 unità, a Tolmezzo 38, a Torino 187, a Brescia 155). Si tratta di eredità del passato difficili da gestire ma che non giustificano lamentele. Soprattutto non giustificano comportamenti illegali. Vorremmo che fossero gli stessi sindacati di polizia a chiedere che la legge penale italiana persegua la tortura e i torturatori. Solo così le loro rimostranze saranno credibili.

di Patrizio Gonnella - Presidente di Antigone

sabato 21 novembre 2009

4 mesi...

QUANTI STEFANO DEVONO MORIRE COSÌ?

Il caso di Stefano Cucchi, il giovane romano massacrato di botte dai carabinieri e dalla polizia penitenziaria, rinvia a tanti altri pestaggi e morti sospette in carcere emersi alle cronache nell’ultimo periodo. Tutto questo ci fa capire che non si tratta di casi isolati.

Intanto, il PM De Angelis chiede l’archiviazione dell’inchiesta sulla morte di Stefano Frapporti. Lo stesso PM che aveva convalidato il suo arresto. Contraddizioni, lacune, menzogne: per il magistrato è tutto regolare. Anzi, i contenuti precisi della memoria presentata dagli avvocati per conto dei familiari di Stefano vengono offensivamente bollati come illazioni nei confronti dei carabinieri. I testimoni del fermo di Stefano, la cui versione contraddice del tutto quanto sostenuto nel verbale di arresto, non sono neanche stati ascoltati.

DIMOSTRIAMO CHE SULLA MORTE DI STEFANO NON CALERA' IL SILENZIO. PERCHE' COSI' NON SI MUOIA MAI PIU'.

Io non scordo Stefano Frapporti

Io non scordo Stefano Cucchi

Io non scordo Aldo Bianzino

Io non scordo Marcello Lonzi

Io non scordo Federico Aldrovandi

Io non scordo Riccardo Rasman

...e tutti gli altri

FIACCOLATA

SABATO 21 NOVEMBRE 2009 - ORE 20,00

PIAZZA LORETO - ROVERETO


“Non si può morire così” parenti, amici e solidali di Stefano

venerdì 20 novembre 2009

L’albero delle mele marce

Nessuno può essere privato del diritto alla salute. Angelino Alfano - ministro di Giustizia.


La discarica sembra veramente essere un po’ troppo piena. Se i rifiuti nel loro silenzioso fluire cominciano a essere in sovrannumero, quando imboccano una strettoia rischiano di provocare danni seri. Ora la strettoia è stata creata da un ragazzo che muore in un reparto bunker ospedaliero dopo essere "caduto dalle scale", un’imputata di eversione che si toglie la vita in cella ricollocando a oltre sessanta il numero dei suicidi dall’inizio dell’anno, un comandante gli agenti di custodia che impreca perché un detenuto è stato massacrato in sezione invece che “di sotto”. E la discarica, che potrebbe contenere all’incirca 41.000 rifiuti, viaggia velocemente verso i 70.000.
Una campionatura completa del marciume: prima, durante e dopo.
Prima. Quando un ragazzo di trent'anni fragile, probabilmente anoressico, sicuramente epilettico, del peso di 40 chili, viene catturato dai Carabinieri e, per il possesso di pochi grammi di marijuana, accusato di spaccio. In ragione di un arretramento culturale, prima ancora che politico e normativo, che sembra aver travolto ormai da tempo il paese: il possesso illegale di sostanze diverse viene equiparato a un'unica fattispecie di nocività e sanzionabilità penale. Così un minorenne è portato a non operare nessuna distinzione nel consumo di una canna, un tiro di coca, una stagnola di eroina: tanto è lo stesso. Così i Carabinieri, magari su di giri perché qualche camerata è invischiato in storie sordide di ricatti ed estorsioni in tema di droga-sesso-potere, possono prelevare un giovane uomo mentre porta a spasso il suo cane, portarlo in caserma dove viene riempito di botte fino a fratturagli due vertebre, consegnarlo serenamente ai colleghi della polizia penitenziaria. Così un ragazzo mette in pratica i fondamentali imparati in anni di vita difficile, anche se tutti, ma proprio tutti, sanno che "caduto dalle scale" significa "pestato a sangue". Così un giudice può convalidare il suo fermo, disporre la custodia in carcere e l'udienza nel merito a un mese di distanza. Un giudice che di certo conosce le prescrizioni: necessità del carcere solo per ipotesi fondata di reiterazione del reato, inquinamento delle prove, pericolo di fuga. Così, dopo essere stato rimpallato tra un centro clinico e un reparto blindato, dopo una settimana di sofferenze un ospedale può lasciarlo morire denutrito e disidratato senza che nessuno, familiari e difensori, abbia potuto ottenere il permesso di vederlo.
Durante. Quando una detenuta per fatti di eversione, condannata all'ergastolo, può impiccarsi con le lenzuola a pochi passi dalla postazione di sorveglianza. In ragione di una convenzione che vuole che la vita abbia perso valore e significato dopo quel "fine pena mai" in evidenza nel fascicolo personale. Così può uscire e rientrare all'infinito dal regime di isolamento stretto (che forse dovremmo chiamare tortura) previsto dal 41 bis dell'ordinamento penitenziario. Così può subire oltre trenta perizie psichiatriche tra quelle di parte e quelle ordinate dal Tribunale. Così può frequentare un numero indeterminato di carceri e manicomi criminali, dove viene sottoposta a trattamento sanitario obbligatorio. Così può maturare paranoie e manie di persecuzione, venire imbottita di psicofarmaci, passare tutta la giornata in branda senza parlare, senza mangiare, guardando il muro. Così il tempo, il luogo, il senso della privazione della libertà diventano entità astratte e incomprensibili. Così gli appelli di familiari e difensori a che le richieste di tutela della sua salute trovino riscontro restano inascoltati. Così un comitato di solidarietà che negli ultimi anni si è occupato di lei può nel maggio del 2006 titolare un appello "Diana Blefari sta per morire". Così una reclusa ad alto rischio, con una madre suicida solo pochi anni fa, un "soggetto schizofrenico e psicologicamente instabile" che pochi giorni prima ha avuto confermata dalla Cassazione la condanna all'ergastolo, viene lasciata morire. La tutela della sicurezza sociale non si accontenta del valore simbolico del carcere: deve esibire tutta la sua logica punitiva, tutto il suo potere afflittivo, sino a portarlo alle conseguenze più estreme.
Dopo. Quando filtra all'esterno un file audio molto nitido proveniente da un carcere del Centro Italia, uno come tanti: 400 detenuti a fronte di 231 posti, cinquanta reclusi con problemi di tossicodipendenza, cinque bambini nella struttura femminile, personale ridotto all'osso, strutture fatiscenti, due tentati suicidi in poche settimane. Così possiamo sentire la voce irritata del comandante gli agenti di custodia ricordare a qualche distratto sottufficiale che "non si massacra un detenuto in sezione, si massacra sotto". C'è la rogna che "il negro ha visto tutto" quando ci sono le celle di isolamento dove la squadretta può lavorare in tutta tranquillità: in questo modo si rischia una rivolta. Lo ricorda ai suoi sottoposti e a tutti noi, il comandante, che il carcere funziona così. Perché un rifiuto non può vantare diritti e quel detenuto che "il negro" ha visto pestare si è guardato bene dallo sporgere denuncia: è anche lui caduto dalle scale. Così possiamo assistere all'osceno balletto del falso stupore e dell'ipocrisia, dell'inchiesta tempestivamente aperta e della ricerca delle responsabilità, dell'indignazione e del garantismo. Per qualche giorno. Poi si tornerà a parlare di sicurezza sociale in pericolo e di certezza della pena, di improbabili piani carcere e di soldi per attuarli che non ci sono, di mille nuovi ingressi ogni mese e dell'impraticabilità dell'area penale esterna. Con un'unica certezza come orizzonte: sempre più carcere e sempre più duro, sempre meno diritti e sempre maggiore disapplicazione delle misure alternative, sempre impunità per chi è protetto dal Diritto di Polizia e sempre nuovi salvacondotti giudiziari per il ceto politico di potere.
Questi tre episodi possono costituire uno strumento collettivo di ripresa di ragionamento e iniziativa sul terreno della giustizia penale, della sua applicazione ed esecuzione, dei veicoli di criminalizzazione: dai flussi migratori, alla circolazione delle sostanze stupefacenti, agli episodi più radicali di conflitto sociale. Teniamo aperta la comunicazione. E' possibile che per questi tre episodi venga proposta l'ennesima versione della teoria delle mele marce. Ma se tutte le mele sono marce forse bisogna abbattere l'albero.

di Marco Rigamo - Liberi Tutti


Vedi anche:

lunedì 16 novembre 2009

Di carcere si continua a morire

Con la morte di un detenuto di 47 anni avvenuta nel carcere di Tolmezzo sabato scorso, salgono a 64 i suicidi registrati nelle carceri italiane nel solo 2009. È il numero più alto registrato a partire dal 1990 (solo nel 2001, ma nel corso di dodici mesi, il numero fu simile).
Viene così confermato un dato atroce: all’interno delle carceri ci si toglie la vita 15-17 volte più di quanto accada tra la popolazione non reclusa. Non solo: mentre all’interno della società italiana, la frequenza di suicidi è maggiore nella fascia di età oltre i 65 anni, in carcere la percentuale più alta di suicidi si trova nella classe d’età tra i 18 e i 24 anni. Ancora: oltre la metà di coloro che si tolgono la vita, lo fanno nei primi sei mesi di reclusione, (spesso di prima reclusione) a dimostrazione del fatto che la causa principale è rappresentata dall’impatto brutale con un universo sconosciuto, con le sue gerarchie informali, con le sue regole ignote, con la sua logica indecifrabile. Infine, c’è una correlazione stretta tra frequenza dei suicidi e istituti particolarmente sovraffollati. Da tutto ciò viene la conferma che il carcere costituisce un luogo che produce sofferenza e alienazione, solitudine e morte.

di Luigi Manconi - Presidente di A Buon Diritto


I nostri governanti:
«Ci sarebbero i suicidi anche se mettessimo i detenuti in un hotel a cinque stelle…».
Ignazio La Russa - 19 novembre 2009

sabato 14 novembre 2009

Prossime iniziative

In attesa della pubblicazione del volantino ufficiale, segnaliamo l'appuntamento di sabato 21 novembre alle 20.00 in piazza Loreto, da dove partirà una fiaccolata in ricordo di Stefano Frapporti per chiedere come sempre verità e giustizia per una morte che ancora oggi - a quattro mesi da quel maledetto 21 luglio - resta avvolta nel mistero.

A seguire buon vin brulè... VI ASPETTIAMO NUMEROSI!

giovedì 12 novembre 2009

Incredibile Giovanardi «Cucchi è morto di droga». Intanto arrivano i primi indagati, sarà riesumata la salma

«Stefano Cucchi era in carcere perchè era uno spacciatore abituale. Poveretto, è morto - e la verità verrà fuori - soprattutto perchè pesava 42 chili». Lo ha detto il sottosegretario Carlo Giovanardi, intervenuto a «24 Mattino» su Radio 24, che ha diffuso il testo dell'intervista, per parlare di droga. «La droga - ha continuato Giovanardi - ha devastato la sua vita, era anoressico, tossicodipendente, poi il fatto che in cinque giorni sia peggiorato...certo bisogna vedere come i medici l'hanno curato. Ma sono migliaia le persone che si riducono in situazioni drammatiche per la droga, diventano larve, diventano zombie: è la droga che li riduce così».

Arrivano però i primi indagati nell'ambito dell'inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi. Iscrizioni, stando a quanto si apprende in ambienti giudiziari, per il reato di omicidio preterintenzionale. Massimo riserbo sul numero degli indagati e sulle loro «qualifiche». L'ipotesi di reato di omicidio preterintenzionale prende in esame le posizioni di carabinieri, agenti penitenziari e detenuti che hanno avuto contatti con Cucchi fino al suo ricovero. Proseguono comunque accertamenti «a 360 gradi», si sottolinea a piazzale Clodio, anche per verificare la sussistenza dell'ipotesi di reato di omicidio colposo, che è invece presa in considerazione da chi indaga in merito a presunte inadempienze che potrebbero essere state compiute dai medici che hanno avuto in cura il 31enne. Tra l'altro sembra ormai certa anche la riesumazione della salma.

Intanto è on line sui siti di abuondiritto.it, italiarazzismo.it, innocenti evasioni.net la documentazione clinica di Stefano Cucchi. «Non c'è alcun mistero sulla morte di Stefano Cucchi. Può sembrare paradossale, ma tutto è documentato e leggibile negli atti» queste sono le parole del professor Luigi Manconi riferite dall'on. Giuseppe Giulietti dell'associazione Articolo21. «E si tratta di un atto di accusa che non può essere ignorato , nè dalle istituzioni , nè dalla politica nè, per quanto ci riguarda dai media. Per queste ragioni - prosegue Giulietti - l'associazione Articolo21 non solo ha deciso di riprendere la documentazione ma anche di chiedere a tutti i blog e a tutti i siti di linkare i video e la documentazione pubblicata. Ci auguriamo, infine che tutte quelle trasmissioni che hanno trovato il tempo e lo spazio per dedicare ore e ore di trasmissioni ai delitti di Cogne, di Perugia, di Garlasco vogliano finalmente dedicare analoghe attenzione alla vergognosa vicenda di Cucchi o a quella già dimenticata di Aldo Bianzino o alla restituzione della memoria e della verità alla famiglia Aldrovanti di Ferrara, la cui vicenda per molto tempo fu circondata da un silenzio complice ed omertoso. Comprendiamo che si tratti di 'delitti più scomodi" e meno utilizzabili all'industria della paura ma non per questo si può fingere di non vedere, di non sentire e di non sapere».

Le parole di Carlo Giovanardi «si commentano da sole». Quel che è certo è che la «famiglia è sempre in attesa di giustizia». Così Giovanni Cucchi, il padre di Stefano, risponde al sottosegretario secondo cui il giovane è morto perchè anoressico e drogato. «Che Stefano aveva dei problemi non lo abbiamo mai negato - dice Giovanni Cucchi - ma non per questo doveva morire così».

«Giovanardi oggi ha perso una buona occasione per tacere. Non si può fare sterile propaganda politica su un ragazzo morto per circostanze ancora tutte da verificare». Lo ha affermato Stefano Pedica, senatore dell'Italia dei Valori, a proposito delle dichiarazioni del sottosegretario sulla morte di Stefano Cucchi, intervenuto oggi a '24 Mattino' su Radio 24.

«Le parole di Giovanardi sulle cause della morte di Stefano Cucchi sono stupefacenti» ha dichiarato invece Patrizio Gonnella, presidente dell'associazione Antigone che si batte per i diritti nelle carceri. «Non sappiamo - aggiunge Gonnella - se Stefano Cucchi è morto per le violenze subite, per le cure negate o per altra ignota causa. Sicuramente la concausa della morte di Stefano Cucchi è una legge iper-punitiva (la Fini-Giovanardi) che tratta chi fa uso di droghe personali come un delinquente e lo butta irrimediabilmente in galera». È per questo, aggiunge, che «le parole del ministro Giovanardi sono sorprendenti». «Soprassedere sulle violenze, sui diritti calpestati, su quanto caduto in questi sei giorni e dare tutta la colpa alla droga è quanto meno singolare - dice ancora Gonnella - Picchiare chi usa droghe è lecito? Abbandonare a se stessi chi fa uso di droghe è lecito? Ci risponda il ministro Giovanardi la cui legge illiberale e punitiva (che assimila droghe leggere e droghe pesanti) ha creato la tragedia del sovraffollamento carcerario».

«Di fronte ad un caso come quello di Stefano Cucchi, su cui è indispensabile ed urgente fare chiarezza quanto prima, le parole del sottosegretario Giovanardi sono il peggio che certa politica possa esprimere al cospetto di una tragedia umana su cui gravano dubbi e sospetti di responsabilità esterne», afferma Roberto Giachetti del Pd. «Dichiarare che il ragazzo è morto perchè anoressico e drogato significa non solo violare la dignità ed il rispetto per le istituzioni che la famiglia ha sin qui dimostrato - aggiunge - ma soprattutto evidenzia una disarmante leggerezza, un'inquietante superficialità e una vergognosa rozzezza di giudizio a cui il sottosegretario Giovanardi non è purtroppo nuovo. C'è un'indagine in corso e tutte le istituzioni, governo e parlamento in primis, dovrebbero augurarsi che si riesca ad accertare la verità stabilendo le reali e precise cause della morte di Stefano Cucchi, senza avventurarsi in ipotesi fantasiose o peggio ancora, come fa Giovanardi, sproloquiare per ragioni propagandistiche sulla pelle di un ragazzo che non c'è più. Consiglio al sottosegretario di seguire l'esempio di una famiglia così provata eppure così dignitosa nel proprio dolore: Giovanardi attenda l'esito delle indagini in religioso silenzio».

Tratto da Repubblica del 09 novembre 2009

Muore in carcere dopo l'arresto - S'indaga per omicidio colposo

Giuseppe Saladino era ai domiciliari per avere razziato monetine dai parchimetri. Sorpreso fuori casa, era tornato nel carcere di Parma venerdì alle 17. Nella notte il decesso. La madre: "Mio figlio era sano, voglio sapere cosa è successo". Pochi giorni fa la Procura aveva aperto un'inchiesta per l'ipotesi di istigazione al suicidio: in cella si era tolto la vita un ergastolano di 52 anni.

Omicidio colposo contro ignoti. E’ con questa accusa che la Procura di Parma sta indagando sulla morte in carcere di Giuseppe Saladino, 32 anni, che ha perso la vita dietro le sbarre la notte del 6 novembre, poche ore dopo l’arresto.

Il giovane era stato condannato a un anno e due mesi per aver razziato monetine lo scorso maggio nei parchimetri di via Pertini e stava scontando la pena agli arresti domiciliari. Venerdì pomeriggio le forze dell’ordine l’hanno ricondotto all’istituto penitenziario dopo averlo sorpreso fuori dal suo appartamento di via Einstein. Erano le 17. Alle 8 della mattina seguente la madre, Rosa Martorano, ha ricevuto una telefonata del direttore del carcere che le comunicava la morte del figlio.

“Ho lasciato un figlio sano e l’avrei voluto avere indietro sano”, ha commentato ai microfoni di Tv Parma. La donna ha spiegato di essere stata avvisata direttamente dal direttore: "Mi ha detto che voleva dirmelo lui perchè sapeva che sono una brava persona e anche mio figlio lo aveva preso in simpatia". Gli occhi asciutti su un viso stanchissimo. "Io voglio sapere che cosa è successo. Voglio sapere tutto".

Per fare chiarezza la famiglia, attraverso l’avvocato Letizia Tonoletti, ha nominato un perito che insieme a quello incaricato dal pubblico ministero Roberta Licci sta cercando di fare luce sul decesso. Per sapere l’esito dell’autopsia bisognerà attendere il termine delle indagini.

Il carcere di via Burla è interessato da un'altra indagine contro ignoti per il reato di istigazione al suicidio. Il 27 ottobre scorso, infatti, si è sucidato in cella Francesco Gozzi, 52 anni. L'uomo, ritenuto affiliato alla cosca Latella di Reggio Calabria, si è tolto la vita impiccandosi con una corda fatta di lenzuoli. Scontava l'ergastolo in regime di 41 bis. Proprio questa mattina i Ris hanno effettuato un sopralluogo nella sua cella.

tratto da Parma - Repubblica

mercoledì 11 novembre 2009

L'assemblea per Stefano scrive alla famiglia Cucchi

Rovereto, 9 novembre 2009

Siamo qui anche noi basiti nell'apprendere che è successo ancora. Siamo della gente trentina e stiamo combattendo anche noi a Rovereto, una cittadina di montagna, per avere delle risposte sulla morte, per niente chiara, di Stefano Frapporti.
Ci uniamo a voi “sorella, fratelli, amici e solidali” nello sgomento di quanto è successo e ci permettiamo di unirci al vostro dolore che anche noi abbiamo vissuto e che sarà sempre vivo. Vi porgiamo il nostro cordoglio, siamo partecipi allo sbigottimento che state provando ma anche alla rabbia e alla lotta che ci accomuna per cercare di apprendere quanto è successo.
Ci avvaliamo del diritto di sapere cosa di sicuramente oscuro è capitato.
Un figlio, un fratello, un amico, una persona che viene sottratta alla vita in non si sa quali circostanze, ci avvicina a voi.
Non sentitevi soli in questa battaglia, con questa rabbia che logora, combattiamo se volete insieme. Siamo tutti figli di questa terra e abbiamo il diritto di vivere e morire secondo un codice che non ci può essere imposto da nessuno.
Purtroppo Stefano, il vostro figliolo, e altri dei quali non si sa neanche il nome, ci dicono che è ora che ci si muova.
Parliamo tutti di quello che sta succedendo in questo paese, facciamo sentire il rimbombo di questo sdegno, non facciamo finta di niente!
Siamo vivi anche per difendere i nostri compagni.
E' ora di agire perché non deve succedere mai più che anche altri si sentano con le spalle al muro, indagati, terrorizzati, perseguitati, oppressi e “desaparecidos”.
Siamo persone che vogliono vivere libere, serene, senza paura, siamo tanti e anche voi con noi.

Vi doniamo un abbraccio e portiamo in alto la nostra bandiera che è quella di sensibilizzare le persone e di urlare sempre: "NON SI PUO' MORIRE COSI'".

Parenti, amici e solidali di Stefano Frapporti, per noi sempre vicino “CABANA”

NON SI PUO' MORIRE COSI'

Qui di seguito due lettere che, invano, sono state spedite ai “nostri” quotidiani locali e mai pubblicate.

"Dopo più di due mesi dalla morte di Stefano ci si ripresenta la domanda: PERCHE'? Perchè la gente, le persone, i cittadini non si accorgono di quello che sta accadendo attorno? Eppure è evidente quello che sta cambiando anche nel normale vivere di questa nostra cittadina. Stiamo ricominciando a vivere un periodo che i nostri genitori o i nostri nonni hanno pagato pesantemente, soffrendo le costrizioni di una dittatura, sacrificando anche la loro vita pur di allontanarlo da noi. Questo periodo sta ritornando? Certe persone dicono di no, ma quando ci si presenta una morte come quella di Stefano è doveroso porsi una domanda: “ Stiamo vivendo veramente in uno stato libero e democratico?”. Molti risponderebbero di sì, altrettanti “non credo”, pochi stanno già combattendo questa situazione, ma tanti, e di questo siamo sicuri, si stanno chiedendo se si può fare qualcosa. Se dovessimo rispondere noi diremmo: “Basta pensare solo a noi stessi, basta dare un valore solo al nostro benessere”. Bisogna ricominciare a vivere l'uomo, vivere l'amicizia ed avere rispetto per tutti. Noi parenti ed amici di Stefano, stiamo cominciando a vivere questo che forse non ci rende migliori di altri ma, sicuramente, consapevoli di volere una vita che sia lontana da tutto quello che può prevaricare l'uomo. Non vogliamo che succeda ad altri ciò che è successo a Stefano, non vogliamo che qualcuno abbia la possibilità di fermarti e, illegalmente, farti arrestare (parole di avvocato), che qualcuno per girare la frittata, possa affermare che è stato Stefano che aveva del “fumo” a casa. E allora, facciamoci tutti un'altra domanda, una domanda tranquilla e logica : Perché una persona alla quale non viene trovato nulla addosso, che non ha mai avuto problemi con la legge arriva così “spontaneamente” ad una confessione? Cos'è che può portare un uomo a togliersi la vita lasciando tutti increduli? “Beh, se non trovate una risposta pensateci bene, perchè anche a voi potrebbe accadere la stessa cosa."

"Un muratore incensurato viene arrestato illegalmente (lo dice l'avvocato) e poche ore dopo viene trovato impiccato nella cella. Questo in breve è quello che è successo a Stefano Frapporti. Famigliari, amici e solidali aspettano da più di due mesi luce sui tanti lati oscuri di questa tragica vicenda. Fin da subito la sensibilità di varie persone (varie per età e vissuto personale) è stata colpita e non ha potuto o voluto accettare che quello che è successo a Stefano sia normale. Per questo si sono organizzate diverse iniziativa : cortei, mercatini, conferenza sulla legge che portano al “Pacchetto sicurezza”, concerto con aperitivo, altre ancora ce ne saranno come il prossimo corteo del 21 ottobre. Tutto ciò per raccogliere fondi per le spese legali ma soprattutto poer sensibilizzare chi ancora non sa o non avverte il clima di scarsa democrazia che stiamo vivendo. E' innegabile che la militarizzazione che si sta imponendo: vigili armati, ronde, ecc., ci fa sentire meno liberi, soprattutto in una città come Rovereto dove il “crimine” è fortunatamente poca cosa. Per tutte queste ragioni, per non sentirci indifferenti , ci troviamo tutti i martedì alle ore 19.30 al Circolo S. Maria a confrontarci su quello che come cittadini possiamo fare ed invitiamo tutti quelli che condividono le nostre sensazioni a partecipare."


E' possibile, per chi vuole, scrivere a questo indirizzo: nonsipuomorirecosi@gmail.com
o visitare il sito: http://frapportistefano.blogspot.com

Familiari, amici e solidali di Stefano Frapporti

Stefano Cucchi

domenica 8 novembre 2009

«Frapporti, sui verbali abbiamo molti dubbi»

Gli avvocati della famiglia presentano una memoria


I legali chiedono alla procura ulteriori accertamenti sul caso dell’artigiano di Isera trovato morto in cella poche ore dopo l’arresto. Nel documento si parla di tre testimoni che negherebbero sia la perquisizione corporale sia la mancata fermata all’«alt»


Da settimane, durante cortei e presidi in memoria di Stefano Frapporti, familiari e amici parlano apertamente dei loro dubbi sulla vicenda. E fin da subito, sulla tragica morte dell'artigiano d'Isera, trovato senza vita in cella a poche ore dall'arresto per detenzione di droga, le loro perplessità si concentravano sul verbale d'arresto. Ora queste perplessità sono state messe nero su bianco: i legali della famiglia hanno presentato una memoria in procura in cui sottolineano ciò che, a parer loro, in tutta questa storia non tornerebbe. È, in sostanza, una lunga serie di domande precedute però da una premessa: di quell'arresto ci sarebbero dei testimoni. Tre, per la precisione. Tre persone che, quel 21 luglio, sarebbero state davanti al bar "Bibendum" e avrebbero visto cos'è accaduto. Un racconto, quello fatto da queste persone agli avvocati della famiglia Frapporti, che non collimerebbe con quanto scritto sugli atti ufficiali. Tra gli interrogativi, innanzi tutto la modalità dell'intervento. Dal verbale si evince che Frapporti sarebbe stato fermato mentre andava in bicicletta in via Campagnole: non avendo ubbidito all'alt imposto dai carabinieri, in quel momento nei pressi del bar per un controllo, sarebbe da loro stato inseguito e successivamente fermato. A quel punto sarebbe stato perquisito, per capire se avesse addosso della droga, e solo poi sarebbe stato accompagnato in caserma. Questo dice il verbale. Ma i testimoni, ai legali della famiglia, hanno raccontato un'altra storia: i carabinieri, in borghese e in auto, non sarebbero stati fermi davanti al bar, ma sarebbero arrivati in un secondo tempo, dalla direzione opposta a quella di Frapporti. Fermata la macchina uno dei due sarebbe sceso e avrebbe bloccato l'artigiano d'Isera senza intimargli l'alt. E quindi - stando alla ricostruzione di questi tre testimoni - senza doverlo inseguire. Con lui avrebbero parlato di un semaforo rosso non rispettato e lo avrebbero portato in caserma, senza però prima procedere alla perquisizione corporale. Contestata, inoltre, anche la perquisizione in casa: i familiari non avrebbero riscontrato i segni di alcun passaggio nell'abitazione. Nomi dei testimoni e memoria difensiva sono da giorni sulla scrivania del pm, che ora dovrà valutare la rilevanza delle eventuali dichiarazioni e l'attendibilità di chi le offre. Nell'attesa, il gruppo che sostiene la famiglia Frapporti prosegue le sue attività: ieri si è svolto il mercatino, mentre si prepara uno spettacolo teatrale:«Vogliamo sensibilizzare la gente su questo dramma» spiegano.

L'Adige 08.11.2009

sabato 7 novembre 2009

Roma - Migliaia in corteo per Stefano Cucchi, scontri con la polizia

Dopo le azioni fatte in questi giorni davanti all'ospedale Pertini per denunciare la responsabilità anche del personale medico per la morte di Stefano Cucchi, oggi, sabato 7 novembre, i centri sociali hanno organizzato un corteo a Tor Pignattara dove il ragazzo viveva.
La partecipazione è stata molto larga ed eterogenea composta da migliaia di persone: militanti, studenti, amici di Stefano, abitanti del quartiere, migranti, famiglie che hanno perso i propri figli perchè torturati dentro le carceri, non ricevendo nella maggioranza dei casi alcuna attenzione mediatica nè ottenenendo giustiza.
Il corteo ha attraversato il quartiere, passando anche sotto la casa del ragazzo, dove li ha accolti la famiglia che ha dichiarato la propria adesione alla manifestazione e ha espresso gratitudine per la forte solidarietà cittadina.
"Stefano non era un eroe" - afferma la sorella di Stefano dal camion del corteo -, ma una delle tante vittime degli abusi polizieschi perpetrati all'interno del nostro cosiddetto "Stato di diritto". E tuttavia, l'assurdità di questa morte non ha impedito un massiccio dispiegamento delle forze dell'ordine all'interno del quartiere. Una Presenza provocatoria verso la quale si è espressa con forza l'indignazione dei manifestanti, attraverso i blocchi stradali e la resistenza alle cariche della Polizia e al lancio di lacrimogeni.
La triste vicenda di Stefano si inserisce all'interno di una lunga catena, ormai quotidiana, di abusi perpetrati ai danni dei cosiddetti soggetti "deboli". In questa catena si inseriscono strumenti normativi (dalla legge Fini-Giovanardi al Pacchetto sicurezza) in grado di garantire costantemente un clima di "caccia alle streghe".
Come si è visto con il caso di Stefano Cucchi, nessun attore che compone questa catena è privo di colpevolezza, ma tutti, dalla polizia ai carcerieri, passando per il personale medico e la magistratura, hanno dimostrato di essere ingranaggi di questo sistema.

Con Stefano nel cuore. Siete per sempre coinvolti!
Nessuna impunità per i responsabili! Mai più!

mercoledì 4 novembre 2009

«No al silenzio su Stefano»

L’avvocato Giampiero Mattei, legale della famiglia Frapporti, non ha ancora ricevuto nulla di ufficiale dalla Procura. Ma alla concreta ipotesi di archiviazione per la morte di Stefano Frapporti da parte della Procura la famiglia non ha intenzione di arrendersi: «Vogliamo capire i motivi che spingono gli inquirenti a chiudere il caso così. Se necessario, ci opporremo».
Secondo la Procura non ci sarebbero elementi per mettere in discussione né l’operato dei carabinieri, che martedì 21 luglio fermarono per strada Frapporti, lo perquisirono e non trovandogli nulla addosso lo sottoposero a perquisizione domicliare trovando oltre un etto di hashish, nè nella condotta delle guardie carcerarie, che lo ebbero in consegna dalle 22.30 fino alla mezzanotte, quando il quarantottenne muratore di Isera, che fino a quel momento non aveva avuto nessun problema con la legge, venne trovato impiccato nella sua cella. Soffocato dal cordone dei pantaloni della tuta ginnica, come certificò l’autopsia ordinata dal sostituto procuratore Fabrizio De Angelis. Forse quella stringa non avrebbe dovuto esserci, ha obiettato qualcuno. «Gliela dovevano togliere» hanno osservato a suo tempo persino le organizzazioni sindacali che tutelano le guardie carcerarie. Ma buttare in capo alle guardie una morte così crudele e repentina pare ingeneroso, la stringa era ben occultata all’interno del girovita e lo stesso Frapporti non avrebbe dato alcun segno di agitazione o squilibrio.
Del resto nemmeno la famiglia di Stefano Frapporti, molto impressionata anche dal recentissimo caso di Stefano Cucchi, ha mai puntato il dito contro le guardie penitenziarie. «Noi continuiamo a ritenere che l’arresto fosse facoltativo, stando a quanto dice la legge - spiega la sorella Ida -. Stefano non era un criminale, ma un lavoratore onesto. Uno che ha sempre lavorato fin da ragazzo. Non c’era alcun rischio di fuga, nè pericolosità sociale. Non c’era ragione di metterlo in cella, bastava la denuncia. Ci inquieta sapere che anche dopo una perquisizione personale negativa si possa imporre a chiunque una perquisizione domiciliare, senza un reale motivo. Se la Procura non ritiene ci siano condotte da sanzionare e intende archiviare, faremo di tutto per opporci attraverso le vie legali». Gli amici di Stefano, che hanno continuato a sostenere la famiglia persino con una raccolta fondi che ha messo un po’ in imbarazzo i fratelli del muratore scomparso. «Non l’avevamo chiesto noi, siamo autosufficenti, ma loro hanno insistito» spiega Ida Frapporti. Ora c’è il progetto di un’associazione con il nome di Stefano, per fare in modo che tragedie simili non si ripetano.

Il Trentino, 04/11/2009

martedì 3 novembre 2009

Stato debole, crudele che risponde occhio per occhio

Diana Blefari Melazzi è stata la sessantesima persona che si è ammazzata nelle patrie galere dall'inizio dell'anno a oggi. Avrebbe dovuto essere custodita dallo Stato. Lo Stato non l'ha custodita nel modo in cui avrebbe dovuto. Pare che oramai per custodia si intenda solo imprigionamento, reclusione, punizione. Eppure non dovrebbe essere così. L'idea costituzionale di custodia è ben altra. Essa comprende il concetto di cura, di trattamento non dis-umano, di offerta di opportunità sociali. La riforma penitenziaria italiana risale al 1975. Essa regolamentava una idea non solamente reclusoria di custodia. Lo faceva nonostante fossero gli anni della lotta armata. Nel 1986 i confini di quella riforma furono ulteriormente allargati grazie a Mario Gozzini e alla sua legge. Eppure esistevano ancora gli eredi delle Brigate Rosse. Lo Stato accettò la sfida della ragionevolezza.
Veniamo al 2009. Non si può dire che nel 2009 vi sia un'emergenza terrorismo. Diana Blefari è stata lasciata morire da sola in galera con la propria disperazione. Tra la sua depressione e un cieco e nero dovere di imprigionamento ha prevalso quest'ultimo. La cura è stata sommersa dall'imprigionamento a tutti i costi. L'imprigionamento nei confronti di una persona che sta male dal punto di vista psichiatrico è un imprigionamento non costituzionale, odioso. Uno Stato che lascia morire una persona che non sta bene è uno Stato debole, crudele, che risponde occhio per occhio. Cosa si poteva fare per Diana Blefari? Si poteva ad esempio credere a quei medici che dicevano che stava male, si poteva aiutarla a curarsi rinviando il momento del processo. Si poteva evitare di lasciarla sola. Poteva essere ricoverata in qualsiasi ospedale. Invece la si è abbandonata in cella. Qualche settimana fa nel carcere di Rovereto è morto Stefano Frapporti, cinquantenne, muratore. Aveva una sola mano a causa di un brutto incidente sul lavoro. Era stato fermato dai carabinieri mentre era in bicicletta. Lo avrebbero perquisito, gli avrebbero trovato dell'hashish. Hashish, non pistole, non mitra, non eroina. Non aveva commesso crimini di «terrorismo». A causa di quella droga «leggera» è stato arrestato e condotto nel carcere di Rovereto. Dopo poche ore pare si sia ammazzato. Sembra inoltre che fosse in custodia nel reparto osservazione, alla stregua di un delinquente vero.
Ecco cosa è cambiato dagli anni Settanta a oggi: dentro le carceri, il sistema ha perso di razionalità; fuori, la repressione colpisce a raggiera, non solo chi compie fatti eversivi, ma tutti coloro che per ragioni di status o di stili di vita non sono conformi al modello dei custodi. Sessanta suicidi in dieci mesi sono un'enormità. Sei persone al mese si sono sinora ammazzate in carcere. Una ogni cinque giorni. È questa la vera ecatombe del sistema giustizia. Una giustizia che salva i ricchi e custodisce senza umanità tutti gli altri mandandone un po' a morte. A seguito di ogni suicidio vi è sempre un'indagine amministrativa del ministero della Giustizia. Nel caso di Diana Blefari Melazzi ci piacerebbe che, oltre a questa, si esprimesse anche il Csm sulla correttezza delle gelide procedure giudiziarie. Nel caso di Stefano Frapporti, sotto inchiesta dovrebbe andare una legge stupida e violenta quale quella sulle droghe.
Ecco cosa è la galera nel 2009: una somma di casi individuali disperati che il sovraffollamento rende invisibili. Ci vorrebbe un moto di sollevazione delle coscienze che li faccia uscire da quella tragica condizione di opacità.

Patrizio Gonnella, presidente di Antigone

Il Manifesto, 03.11.2009

Il caso Frapporti va in archivio

Mentre governo e magistratura si dicono pronti a fare chiarezza sul caso di Stefano Cucchi, arrestato a Roma per spaccio di marijuana e morto qualche giorno dopo con il corpo tumefatto, la procura è orientata ad archiviare il caso di Stefano Frapporti, la cui morte per suicidio in una cella del carcere roveretano, a fine luglio, poche ore dopo l’arresto, ha sollevato una grossa impressione in città, oltre a una quantità di polemiche sfociate in numerose manifestazioni pubbliche in cui si chiedeva chiarezza sulla fine del muratore, incensurato fino al momento dell’arresto.
La Procura non ritiene vi siano elementi per ipotizzare reati né nel comportamento dei carabinieri - che avendo trovato, lo dicono i verbali, oltre un etto di hashish nell’appartamento di Frapporti non potevano fare altro che arrestarlo - né nella condotta delle guardie carcerarie, che non si potevano aspettare la repentina decisione di farla finita. L’unico appiglio sarebbe la famosa stringa dei pantaloni della tuta da ginnastica utilizzata da Frapporti per impiccarsi in cella: applicando il regolamento alla lettere le guardie avrebbero dovuto togliergliela, ma lui non aveva dato alcun segno di squilibrio o sofferenza. Pochi minuti prima di uccidersi era stato controllato e pareva tranquillo. Sarebbe ingeneroso addossare ogni responsabilità alla polizia penitenziaria. Dunque, escludendo responsabilità di terzi, la via scelta dalla Procura è l’archiviazione.
Intanto però gli amici e i parenti di Stefano Frapporti continuano a ritrovarsi ogni martedì al dopolavoro di via Santa Maria e stanno organizzandosi in associazione. Da loro arriva una lettera preoccupata per il clima creatosi in città. «Quando ci si presenta una morte come quella di Stefano è doveroso chiedersi se stiamo vivendo in uno stato libero e democratico. Molti risponderebbero di sì, altrettanti “non credo”, pochi stanno combattendo questa situazione ma tanti, ne siamo sicuri, si stanno chiedendo se si può fare ancora qualcosa. Se dovessimo rispondere, diremmo: “Basta pensare solo a se stessi, basta dare un valore solo al nostro benessere. Bisogna ricominciare a vivere l’uomo, l’amicizia, e ad avere rispetto per tutti. Noi, parenti e amici di Stefano, stiamo cominciando a vivere questo, che forse non ci rende migliori degli altri ma di sicuro consapevoli di volere una vita lontana da tutto ciò che può pevaricare l’uomo. Non vogliamo che accada ad altri ciò che è successo a Stefano, non vogliamo che qualcuno abbia la possibilità di fermarti e farti arrestare e che qualcuno, per girare la frittata, possa affermare che è stato Stefano a dire che aveva del fumo a casa. Facciamoci tutti una domanda, tranquilla e logica: perchè una persona alla quale non viene trovato nulla addosso, che non ha mai avuto problemi con la legge arrivi così “spontaneamente” ad una confessione? Cosa può portare un uomo a togliersi la vita lasciando tutti increduli? Pensateci bene perchè anche a voi potrebbe accadere la stessa cosa».

Il Trentino, 03/11/2009

lunedì 2 novembre 2009

Stefano e non solo...

Il caso di Stefano Cucchi non è purtroppo né il primo né isolato. Tra le altre, le famiglie di Aldrovandi, Raisman e Bianzino aspettano ancora una piena giustizia e la fine dell’impunità dei poteri dello Stato.


Tanti i casi di presunte violenze delle forze dell’ordine Sentenze spesso morbide, pochi colpevoli


di
Cristiano Armati
da Il Fatto Quotidiano del 1 novembre 2009

Stefano Cucchi, il ragazzo arrestato a Roma il 15 ottobre per il possesso di stupefacenti e trascinato come una cosa tra la camera di sicurezza della Stazione “Tor Sapienza” dei carabinieri e il reparto detentivo dell’ospedale Sandro Pertini, non è uscito vivo dall’impatto con il sistema repressivo. Ora è sulle pagine dei giornali e fissa i lettori con i 37 chili del suo corpo martoriato. Cosa gli è successo? Davvero ha ragione chi ha avuto il coraggio di scrivere che la sua triste fine è da attribuirsi a “presunta morte naturale”?

In realtà, negli ultimi anni, sull’altare della sicurezza sono state sacrificate decine di persone. Si è cominciato, per contare le vittime a partire dal 2005, con il diciottenne Federico Aldrovandi, massacrato da quattro agenti di polizia a Ferrara, il 25 settembre di quell'anno. Di lui, i responsabili della sua morte hanno prima detto “che sembrava un albanese”, poi che si era ammazzato da solo prendendo a testate un muro. In gergo viene definita “crisi psicomotoria”: la stessa che è stata affibbiata anche a Giuseppe Casu, sessantenne di Quartu (Cagliari), trascinato via dalla piazza dove vendeva fichi d’india e rinchiuso per un Trattamento Sanitario Obbligatorio nell’ospedale di Is Mirrionis. Nel nosocomio nessuno fa domande. L'ambulante viene sedato e legato al letto. Lo stesso letto dove, il 9 ottobre del 2006, Giuseppe Casu muore.

UNA COSA simile succede a Riccardo Raisman, 34 anni, di Trieste. Si tratta di un ragazzo affetto da una sindrome schizofrenica contratta nel corso del servizio militare, a causa di ripetuti atti di nonnismo: un problema che gli ha lasciato in eredità una fobia nei confronti di chi indossa la divisa. Ebbene, il 27 ottobre del 2006 Riccardo Raisman è felice. Il giorno dopo avrebbe dovuto iniziare a lavorare e festeggia l’avvenimento facendo un po’ di baccano. Qualcuno chiama la polizia ma Raisman si guarda bene dall’aprire. Intervengono i vigili del fuoco, che sfondano la porta mentre gli agenti irrompono nella casa. Quando Raisman diventa cianotico è troppo tardi. Alcuni vicini di casa riferiranno di aver sentito dei rantoli, poi più nulla: Riccardo è morto.

ANCHE PER il falegname Aldo Bianzino, 44 anni, di Pietralunga (Perugia), i familiari e gli amici invocano verità e giustizia. Come il romano Stefano Cucchi, Bianzino era stato arrestato per il possesso di stupefacenti e portato nel carcere Capanne. Qui, il 14 ottobre del 2007, Bianzino muore in circostanze quantomeno misteriose viste le lesioni agli organi interni accertate dall’autopsia.

Nella macabra lista delle vittime dell’ordine pubblico troviamo poi Giuseppe Torrisi , 58 anni, un clochard di Milano ucciso a botte da due agenti di polizia ferroviaria alla stazione Centrale, il 6 settembre del 2008. Dopo aver compiuto il misfatto, i tutori dell'ordine hanno pensato di compilare un falso verbale accusando Torrisi di averli aggrediti con un taglierino.

Non è la prima volta che accade. Per lo stesso Gabriele Sandri, classe 1981, ucciso da una pallottola esplosa dall’agente Luigi Spaccarotella l’11 novembre del 2007, si è parlato di mistificazione, anche se il responsabile di quell'assurda morte è stato processato e condannato a una pena da molti ritenuta troppo lieve. Per contro c'è anche chi non riesce neppure a sottoporre attraverso un processo il suo caso all’attenzione dell’opinione pubblica. Il discorso vale per il ventiduenne Manuel Eliantonio, un ragazzo di Pinerolo che, la mattina del 23 dicembre del 2007, viene sorpreso dalla polizia alla guida di un auto rubata. Tradotto nel carcere di Marassi, Manuel va incontro a un calvario allucinante. Visitato in prigione, ostenta evidenti segni di maltrattamenti, eppure nessuno riesce a fare nulla finché, il 25 luglio del 2008, la signora Maria non viene messa a conoscenza dell’avvenuto decesso del figlio.

A VOLTE, PER incontrare la morte, non è neppure necessario commettere un reato. Il senegalese Chehari Behari Diouf, 42 anni, residente a Civitavecchia (Roma), non ha fatto null’altro di diverso dallo starsene seduto nel giardino di casa sua. L’ispettore di polizia Paolo Morra ha avuto da ridire e, accusando Diouf di schiamazzi, gli ha scaricato addosso il fucile, uccidendolo il 31 gennaio del 2009.

Più fortunato di lui è stato un altro ragazzino di nome Rumesh Rajgama Achrige, un writer diciottenne di Como che, il 29 marzo del 2006, nel corso di un banale controllo, si è ritrovato ridotto in fin di vita da un colpo di pistola sparato contro di lui da uno dei vigili urbani che, negli ultimi anni, la giunta comunale del comune lombardo ha ritenuto di dover armare.

Dalla tragedia di Achrige alla fine di Stefano Cucchi, le similitudini si colgono quantomeno nella difficoltà con cui gli organi preposti diffondono informazioni attendibili sui casi di morti da ordine pubblico. Stefano Cucchi, in attesa di ulteriori accertamenti, potrebbe essere l’ennesimo anello di questa catena. Ma ora che le orbite tumefatte del ragazzo gridano vendetta al cospetto di ogni residuo di coscienza collettiva sarà possibile dare un senso a quegli slogan di “verità e giustizia” che comitati sparsi in tutto il Paese chiedono per le numerose vittime delle forze dell’ordine?


di Franco CorleoneIl Manifesto


La morte di Stefano Cucchi sgomenta per il carico di inaudita violenza esercitata verso una persona fragile; colpisce per il peso di omissioni, sciatterie, menzogne, che hanno accompagnato un calvario di sette giorni, dal fermo all'autopsia.

E' una vicenda che condensa in sé -esasperati- tutti i malanni e le contraddizioni del funzionamento della giustizia, del carcere non trasparente, della legge sulla droga.

Stefano Cucchi viene fermato per il possesso di un pezzo di hashish, all'udienza di convalida si presenta con un avvocato d'ufficio; il giudice conferma l'arresto e rinvia il processo a nuova seduta (quali esigenze cautelari impedivano la liberazione o gli arresti domiciliari?); entra infine nel tunnel che lo porta a Regina Coeli, poi al Fatebenefratelli e infine nel repartino bunker dell'Ospedale Sandro Pertini.

In questo percorso costellato di puntigliosità burocratiche non c'è spazio per i diritti elementari di civiltà, prima ancora che per il dettato dell'Ordinamento penitenziario; non c'è spazio per un briciolo d'umanità verso i familiari, prima ancora che per il diritto alla salute e alla vita di un detenuto.

La riforma che ha passato la sanità penitenziaria al servizio sanitario pubblico ha fallito, in un' occasione che poteva costituire il banco di prova per segnare la differenza e garantire i principi costituzionali.

Stefano Cucchi non è un caso isolato, purtroppo. Che cosa dicono oggi i nomi di Marco Ciuffreda, di Giuseppe Ales, di Alberto Mercuriali, di Roberto Pregnolato, di Stefano Frapporti, di Aldo Bianzino? Sono persone morte in carcere in circostanze non chiare o suicidatesi per reazione all'arresto legato alla detenzione di pochi grammi di stupefacenti. Sono persone presto dimenticate o su cui neppure si è acceso l'interesse dei media e delle istituzioni. C'è da augurarsi che questa volta le indagini procedano speditamente per arrivare a conclusioni non desolanti e non deludenti. Si tratta di sapere subito con precisione come sono andate le cose. Questa sarebbe la prima conquista di verità e di giustizia. La seconda, di non avere riguardi verso gli eventuali colpevoli, qualsiasi divisa essi indossino.

Infine, di riflettere sul serio sui tanti risvolti criminogeni della legge antidroga. Che non solo equipara nell'assurdo rigore delle pene droghe leggere e pesanti; soprattutto, abbandona per furore ideologico i tradizionali principi di garanzia, considerando presunto colpevole (di spaccio), passibile perfino di arresto, anche chi possiede pochi grammi di sostanza. Al di là degli effetti repressivi, la legge alimenta lo stigma verso i consumatori di droghe in quanto tali; indebolisce i soggetti colpiti dalla repressione per la vergogna e la paura; "autorizza" nei loro confronti la violenza morale del disprezzo e dell'intolleranza, anticamera spesso della violenza fisica. Così nel 2000, nel carcere di Sassari gli agenti della polizia penitenziaria poterono impunemente accanirsi contro detenuti inermi, quasi tutti tossicodipendenti, con un pestaggio selvaggio e dai contorni bestiali senza ragione alcuna.

Ci sono poi le attività di polizia sotto copertura per gli acquisti e il commercio di droga, previste dalla stessa legge: con il ritardo degli arresti e dei sequestri, i controlli e le ispezioni senza autorizzazione preventiva dell'Autorità giudiziaria si è dato il via ad attività che si fondano sull'impunità e sulla discrezionalità: che, nel caso di "mele marce" (vedi quelle del caso Marrazzo), arriva fino all'arbitrio, al ricatto e all'arricchimento illecito.

Come ha scritto Adriano Prosperi (Repubblica, 30 ottobre), almeno riconquistiamo l'habeas corpus!


di Furio Colomboda Il Fatto Quotidiano del 1 novembre 2009


Non leggete le storie di Stefano Cucchi, Mariano Bacioterracino ed Elham come se fossero brutte storie tipiche del caotico vivere di massa. Non pensate che a loro “qualcosa è andato storto”, che succede, che è sgradevole, ma la vita, adesso come nel passato, è piena di brutte sorprese.

Le vittime di questo elenco sono un giovane uomo arrestato senza ragione, un pregiudicato nella lista di esecuzione della camorra, un uomo del tutto innocente impigliato nella rete di un’odiosa burocrazia persecutoria. Sono la stessa persona, privata all’improvviso di diritti umani e civili. Quella persona siamo noi, mentre moriamo di botte, moriamo uccisi sui marciapiedi, moriamo di sciopero della fame in un campo di concentramento detto “Centro di Identificazione ed Espulsione”.

Siamo noi persino nello sdoppiamento da malattia mentale che si vede nel video del delitto di camorra: i passanti scavalcano il corpo della persona appena uccisa fingendo di non vedere. Siamo noi che diciamo per bocca del responsabile carcerario che Stefano Cucchi (faccia sfondata, schiena spezzata) “ha preferito dormire, rifiutando il ricovero in ospedale”. Siamo noi quando i medici di un grande ospedale civile vedono per due volte il marocchino Elham detenuto senza reato e senza sentenza, senza avvocati e senza tribunale. Nessun medico fa domande, nessuno ascolta, nessuno vuole sapere. Lo rimandano, un essere umano ridotto a quaranta chili dal suo ostinato sciopero della fame, nel lager di Gradisca, dove è ancora detenuto e morente, mentre io scrivo e voi leggete. Vorrei essere capito. Sto dicendo che noi, noi tutti vittime, colpevoli e testimoni siamo scesi al livello in cui si pestano a morte i detenuti, si scavalcano di fretta i cadaveri, si lascia morire di fame in perfetta indifferenza l’immigrato testardo.

Siamo la stessa gente che ammazza di botte gli omosessuali e ammazza di cavilli procedurali la legge che difende gli omosessuali in modo che questa legge non ci sia mai. Siamo noi il disperato Elham che muore nel lager costruito per punirlo di essere venuto in Italia in cerca di un Paese civile. Siamo noi il carceriere e il medico senza dignità che- per quieto vivere- lasciano morire chi cerca nella morte l’unica fuga. Siamo l’uomo abbattuto dalla camorra, con pochi gesti agili, senza concitazione. Siamo l’assassino che va via senza nascondere la pistola, siamo i passanti che non fanno caso ai cadaveri sui marciapiedi. Siamo i poliziotti che hanno massacrato il giovane Stefano Cucchi e continuano a restare ignoti. Siamo dunque allo stesso tempo il terrore e le vittime del terrore perché i nostri diritti e la nostra decenza sono precipitati in un buco nero immorale e illegale insieme a Cucchi, Bacioterracino, a Elham e ai loro assassini. Poiché ci siamo lasciati degradare fino a questo punto, non ci resta che dire un grazie riconoscente ai genitori e alla sorella di Cucchi che non hanno ceduto; ai giudici del delitto di camorra, che hanno diffuso il tremendo video, affinché tutti vedessero una scena di vita in una città italiana ai nostri giorni; a coloro che hanno fatto arrivare l’ annuncio di prossima morte dell’ immigrato Elham. Queste tre notizie servono almeno a ricordarci quanto siamo arrivati lontani dalla nostra Costituzione e dai fondamenti della Carta dei diritti dell’uomo. In Italia. Oggi.