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Non si può morire così...
Stefano Frapporti era un muratore di 48 anni. Il 21 luglio 2009 andava in giro in bicicletta quando è stato fermato da due carabinieri in borghese per un'infrazione stradale. Portato in carcere perché sospettato di spaccio non uscirà mai vivo dalla cella.

Questo blog nasce dalla volontà della famiglia di ottenere chiarezza su quel che è successo a Stefano e per chiedere che venga fatta giustizia.



ASSEMBLEA PUBBLICA TUTTI I MARTEDI' DALLE 20.00 ALLA SEDE DELL'ASSOCIAZIONE "STEFANO FRAPPORTI" IN VIA CAMPAGNOLE 22.

domenica 23 agosto 2009

Lettere di solidarietà

Abito a Rovereto. Ho tolto via Campagnole dai miei itinerari, ma nessuno mi assicura che non possa accadere altrove, a me come ai miei figli, a chiunque: transitare in bicicletta, passare davanti ad un bar che 'potrebbe' essere sospetto (ma io non lo so) ed essere fermato. Non essere trovato in possesso di alcunchè ma di ritrovarmi ugualmente le forse dell'Ordine a casa che mi perquisiscono. E poi di finire in carcere. Ma siamo ancora in un regime di libertà o la nostra è già libertà vigilata?
PAOLA R. (Rovereto)

In questa Italia nella quale assistiamo ad una progressiva erosione dello Stato di diritto, un detenuto muore in cella suicidandosi a tre ore da un fermo per infrazione stradale (in bicicletta!) che matura in seguito ad una perquisizione domiciliare in assenza di testimoni e legali. Il fatto è accaduto a Rovereto in Trentino, ma l'eco che si moltiplica grazie alla rete è giunta anche qui a Verona da dove scrivo perchè l'uomo, descritto da tutti come un mite, viene poi arrestato con l'accusa di detenzione di droga, fatto inverosimile a detta di chi lo conosceva. Tre ore dopo in cella si impicca con una corda, nel silenzio totale e viene cremato in fretta. A me qualcosa non torna vorrei che questo ragazzo che si chiamava Stefano Frapporti non fosse solo un fascicolo di archivio alla voce "Eventi critici" di un penitenziario di una provincia ovattata e felix delle sue autonomie. Ora la città protesta e chiede che si faccia luce. Intanto l'Italia prosegue ignara, le ronde partono e di una morte in più, fra le tante che avvengono al chiuso del carcere, non si accorgerà. Una lettera ad un giornale non basterà, ma è sempre meglio che il silenzio.
GOSTA ZWILLING (Verona)

Ho conosciuto Stefano Frapporti dieci anni fa, per dei lavori di sopraelevazione in casa mia. Un periodo breve, un mese circa, in cui comunque ho avuto modo di apprezzare la sua mitezza, la sua cordialità, la sua voglia di lavorare. Alla sera, finito il suo lavoro da muratore e lavatosi le mani dalla calce, Stefano partiva verso casa con lo scooter, immancabilmente con un sorriso. Ne ho un ricordo ancora vivo e quell'immagine serena stride oggi più che mai con quella di un presunto spacciatore, di un "criminale", come vorrebbero descrivere le cronaca di polizia di quel tristissimo giorno in cui Stefano ha perso la vita. Dico "perso" la vita, perchè molto spesso in atti come questi, la volontà della persona viene annichilita dagli eventi, dalla prepotenza di una realtà incomprensibile, dal prevalere della forza sulla ragione. Nulla e nessuno restituirà più ai suoi familiari Stefano - come dice il padre. Tuttavia è dovere di questa società e di chi la rappresenta, indagare e comprendere, stigmatizzare ed intervenire perchè non passi sotto silenzio una questione - una fra le tante di questa nostra giustizia italiana - che non si può passare come una normale questione di quotidiano "disagio" carcerario.
MAURO PANIZZA (pubblicista, Volano)

Non riesco ad entrare nelle vesti del povero Stefano se non immaginandone lo supore prima (l'arresto) con tutti i suoi perchè; l'angoscia dopo (il carcere) con tutti i suoi perchè. Credo che quel vuoto di domande debba farci riflettere perchè può toccare ad ognuno di noi di fare la fine di Stefano.
ANTONIO MARCHI (pensionato, Trento)

Ho espresso solidarietà alla famiglia di Stefano Frapporti. Purtroppo mi rincresce constatare che non sempre le forze dell’ordine cercano la verità. Per sapere la verità è necessario partire dalla prevenzione. Intendo dire: rispetto per gli altri, che non c’è e che non c’è mai stato. C’è modo e modo di rapportarsi con le persone. Innanzitutto serve il dialogo - l’accertamento della verità e perché no, un po’ di umanità con psicologia preventiva. Scommetto che se fosse stato un collega... sarebbe stato diverso. Per la mia schiettezza ho pagato un prezzo salato perché una persona che esprime le sue versioni corrette oggigiorno è già una persona “carcerata”. Ovvero, un carcerato libero da recinti ma assillato da persecuzioni sottili.

PAOLA CAPPELLETTI

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